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Il Colonnello  Carlo Calcagni

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CARLO CALCAGNI:

IL DELFINO CHE SOGNA RIO

“Sai che c’è non ce ne frega niente, dei pescecani e di tanta brutta gente, siamo delfini, è un gioco da bambini.

Sai che c’è non ce ne frega niente, la vita è morire cento volte, siamo delfini e giochiamo con la sorte”.


Era il 1993. Sono passati più di 20 anni da quando, prima di andare in missione, il capitano Carlo Calcagni

ascoltava questa canzone, “I delfini” del maestro Domenico Modugno. Oggi che il capitano ha 47 anni,

quelle parole hanno assunto un significato diverso ma sempre ricco di speranza e di voglia di andare avanti.


“Ho affrontato diverse missioni come pilota di elicottero. Turchia, Albania, Aspromonte e Sicilia dopo la morte di Falcone. Nel 1996 venni chiamato insieme ad altri 3000 soldati per prendere parte all’azione di pace in Bosnia. Avevo il compito di intervenire con l’elicottero per offrire soccorso ai feriti in zona di guerra. Ho sempre compiuto

il mio dovere, non mi sono mai tirato indietro ma ora è chi rappresenta lo Stato che si è defilato.”

La voce di Carlo Calcagni è profonda, le parole sono misurate, la fiducia nelle istituzioni immutata.

“Rifarei tutto ciò che ho fatto e ancora oggi vesto con orgoglio la divisa. Non è il comportamento di alcuni funzionari che mi fa rinunciare agli ideali per cui ho lottato”.


Eppure oggi, ogni mattina, deve assumere oltre 100 compresse, deve fare 7 punture contenenti oltre 175 vaccini per poter sopravvivere, affrontare due ore di camera iperbarica e dalle tre alle quattro ore di flebo; ogni sera,

prima di coricarsi deve infilare nella carne l’ago del ventilatore polmonare. Due volte alla settimana si sottopone

a trasfusioni ematiche e una volta ogni sette giorni deve affrontare la dialisi.


A mandare in tilt il suo organismo, ad inizio anni 2000 non è stata una bomba o una mina, ma un nemico invisibile. Il capitano, dopo una notte trascorsa con febbre alta a causa di alcune setticemie, lo nomina una sola volta nel corso del nostro lungo incontro. “L’uranio impoverito era stato usato dagli americani per distruggere gli obiettivi sensibili”. 


Gli americani avevano avvisato il Ministero della Difesa italiano, indicando i punti interessati e i rischi certi per la salute dei soldati. Ma nulla fu fatto per avvisare a cosa sarebbero andati incontro i soldati italiani. Domenico Corcione, Beniamino Andreatta, Carlo Scognamiglio e, l’attuale capo dello stato, Sergio Mattarella si succedettero alla guida del Ministero dal 1995 al 2000 sotto i governi Dini, Prodi e D’Alema, ma nessuno di loro fece in modo di fornire alle truppe italiane l’equipaggiamento adeguato o, quantomeno, le informazioni necessarie ad affrontare un nemico tanto invisibile quanto letale.


Gli effetti delle polveri e dei metalli pesanti depositatisi nei polmoni dei soldati italiani, non hanno impiegato troppo tempo a dimostrare i propri effetti: tantissimi sono i reduci ammalati. Tra loro anche Carlo Calcagni al quale sono già stati asportati alcuni noduli ai polmoni e soffre di mancato funzionamento dell’ipofisi, mielodisplasia, ipossia, perdita della sensibilità agli arti, sclerosi multipla cerebrale e, da giugno 2015, anche del morbo di Parkinson. Malattie che non lasciano scampo, che tolgono la voglia di lottare e di vivere. Ma il capitano Carlo Calcagni è un delfino, uno che non si lascia affondare e, grazie al ciclismo ogni giorno torna a vivere: “Fino ai 18 anni avevo fatto judo, ma poi a 26 anni ho scoperto la mia passione per la bici e in sella ho vinto tanto. Mi chiamavano “il fuggitivo” perché ero sempre all'attacco in solitaria e mi sono preso le vittorie in tutte le GranFondo più belle. Tanto che qualche team professionistico mi aveva chiesto di provare il grande salto. Ma io ero un militare, un elicotterista istruttore e anche allora non ho voltato le spalle ai miei ideali. In questi anni, a causa delle mie condizioni di salute,

i medici italiani mi avevano vietato l’attività fisica ma con un’equipe medica inglese abbiamo provato che proprio grazie al ciclismo posso stare meglio.” 

Una ricetta che sembra incredibile e che, invece, ha basi concrete: “Oggi il mio corpo soffre di ipossia: l’ossigenazione dei tessuti è pari al 13% (i valori normali in un organismo sano si attestano attorno al 98%, ndr). Quando pedalo, senza ossigenazione artificiale, questi valori salgono fino al 40%; per questo abbiamo aggiunto l’ossigenatore portatile e sono arrivato addirittura all’80%. Per questo dico che con i farmaci sopravvivo ma è la bicicletta che mi fa vivere”.

Una bicicletta da corsa con tre ruote, quella usata su strada da Carlo Calcagni, che serve a fare posto all'ossigenatore portatile: “Se esco su strada devo sempre essere accompagnato perché ogni imprevisto potrebbe essere letale. Succede spesso che rientro con la febbre già a 38-39. Quando non posso uscire salgo sui rulli per un’ora o due e sto già meglio”. 

Una passione che diventa medicina, per il corpo, ma anche per la mente. Grazie alla bicicletta Carlo Calcagni

non solo riesce a vivere ma ha trovato un nuovo obiettivo per cui valga la pena lottare. E’ campione italiano di paraciclismo, ha vinto due prove di Coppa del Mondo e ora punta diritto alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro:

“Senza un obiettivo non potrei sopportare tanto dolore. Il tecnico della nazionale mi ha chiamato nei giorni scorsi. Questa settimana svolgerò alcuni test a Montichiari. Vuole portarmi in pista, su una bicicletta normale per fare chilometro da fermo e inseguimento individuale già ai mondiali in programma a marzo proprio al velodromo

Fassa Bortolo: io non ho mai fatto pista ma le sfide mi piacciono e se questo servirà a portarmi a Rio, sono pronto

a mettermi di nuovo in gioco”.

Carlo è così. Non conta la fatica, non conta il dolore, non contano i mille ostacoli che ancora dovrà affrontare per raggiungere il Brasile, non contano nemmeno le assurde accuse di doping subite in passato e tanto meno

la volontà di ignorarlo, quasi di nasconderlo, da parte delle istituzioni italiane che non vogliono ammettere l’errore commesso in Bosnia. Lui, il capitano, è un delfino. E i delfini giocano con la sorte per ascoltare la voce del mare che, come racconta Sergio Bambaren, ripete a tutti:

“Alcune cose saranno sempre più forti del tempo e della distanza, più profonde del linguaggio e delle abitudini: seguire i propri sogni e imparare a essere sé stessi, condividendo con gli altri la magia di quella scoperta”.

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